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sabato 31 ottobre 2015

Pronti, carta penna (tastiera) e via!!


Gordon Parks, Herbert Gehr 


Trascurare la scrittura è, ogni volta che mi capita, il più grande rimprovero che faccio a me stessa.

Per mesi non ho aperto questa pagina, nel 2015 ho scritto solo tre post. Eppure il 2015 è stato ed è l'anno del mio grande risveglio. Scrivo, scrivo molto più del solito, come mai nella mia vita. è un bisogno e un'esigenza che non so spiegare. 
Una voglia si è risvegliata, mentre stava solo facendo una pennichella.


La passione di scrivere la vivo tra quattro mura e si esaurisce tutta nel piacere di raccontare; senz'altro scopo che dare soddisfazione alla mia curiosità per le azioni degli uomini. Ho paura di chiedermi qual è - se c'è - il comune denominatore di tutte le cose che faccio. Non mi interrogo. Tante volte spero che "scrivere" sia la risposta a tutte le domande. Qual è la mia poetica? Scrivere. 

(Vincenzo Cerami, Consigli a un giovane scrittore)

lunedì 12 ottobre 2015

Roma 2003/Ankara 2015


Un festival della protesta fai da te che ha esaltato le mille anime del movimento. Dieci chilometri di corteo per dire "No alla guerra"
A Roma il popolo della pace"Siamo in tre milioni"



Tre milioni secondo gli organizzatori, 650.000 secondo la questura. 

Siamo noi, insieme agli altri cento e passa milioni in tutto il mondo ad alzarci anche stamattina troppo tardi, ad infilare di fretta i vestiti e poi la sciarpa - che il 15 febbraio 2003 fa freddo. Siamo noi che si inizia con un sms, ci si dà un appuntamento: siamo tutti pronti anche oggi. Tizio dove lo lascia il motorino? Guarda che la madre non lo sa... Lo lascia da me, i miei sono tranquilli...

Siamo noi che abbiamo deciso di saltare la scuola, perché tanto una lezione in più o una lezione in meno che cosa può cambiare? A giugno ci sarà stata la maturità, ma giugno è così lontano. Siamo noi, quelli per i quali è più vicina Baghdad, nello spazio e nel tempo. Geografia non la studiamo da tempo, ma lo sappiamo tutti bene che esiste un Medioriente che ci richiama, che ci fa appassionare, che ci affondare in discussioni che poi sapremo essere lacunose e troppo spesso idealiste.

Sono io, che contorno gli occhi con una semplice matita nera de L'Oreal, indosso pantaloni molto larghi, che mi fermo dal giornalaio per comprare La Repubblica e poi vado prendere il treno. Sono io che tanto mi conviene pure, perché non ho fatto i compiti di matematica. Ma no, non posso pensarci neanche, sarò cretina a intravedere un mio tornaconto personale? Ci credo veramente, e questo giornale lo conserverò e lo farò leggere ai miei nipoti, se mai ne avrò.

E su quella prima pagina la notizia, il giornale che passa di mano in mano, mani con i guanti, mani rosse e sudaticce come solo gli adolescenti hanno la sfortuna di avere. Sul treno dei pendolari, insieme alle spinte che da inesperti ci prendiamo tutte, c'è la voglia di correre e gridare. C'è anche qualche risata, ma sempre nella composta serietà del nostro impegno politico e sociale. Che Bush sia maledetto, che l'America sia maledetta, che quel cretino che è entrato a scuola sia maledetto.

Siamo noi con poche bandiere prese in prestito dai fratelli più grandi, siamo noi che marciamo non sapendo niente della guerra se non di quella intravista dagli occhi di qualche nonno, se non quella dell'immagine del 10 giugno sul libro di scuola. O di quella fissata in un fotogramma di qualche film americano. Che siano maledetti.

Roma è bellissima stamattina, siamo bellissimi noi, che cantiamo Bella Ciao e La guerra di Piero e non siamo mai stanchi di camminare...






PS. Adesso sono loro. Un collegamento azzardato. Due marce pacifiste. Un evento che, come non si dovrebbe mai fare in questi casi, mi tocca sul personale e rievoca in me quello che eravamo e quello che alcuni non potranno mai più essere.





sabato 4 luglio 2015

Non volevo fare la professoressa

Mi fermo spesso a pensare alla studentessa che sono stata e devo dire che non ci trovo nulla di eccezionale, nulla di memorabile, nulla che possa veramente servire da esempio ai miei studenti. Almeno nulla che possa essere utilizzato da loro come modello esplicito. Ma loro non sanno, e non lo sanno la maggior parte dei colleghi, e non lo sapevo neanche io fino a qualche settimana fa che è stata proprio quella Sara lì a fare questa professoressa. Con tutti i pregi e i difetti.

All'asilo ero buona, troppo buona. Il mio vero obiettivo era quello di tornare al più presto da mia madre e toglierlo dalle grinfie di mio fratello, minore, che amavo e odiavo. Ma forse questo non è interessante.

Alle elementari ero bravissima, mi sono distinta fin da subito nelle lettere, mentre accusavo tremendi mal di pancia quando arrivava inesorabile il momento delle tabelline.

Ma è stato in odor di adolescenza che mi sono scatenata, continuavo ad essere abile con le parole e furba più degli altri nel dissimulare le mie difficoltà con i numeri, ma ero diventata una fastidiosa chiacchierona. Per anni non si è capito il perché; ora lo so: mi annoiavo a morte.

Al liceo avvenne la vera tragedia. Non si sa come e perché qualcuno mi aveva convinto dell'inesistente differenza tra classico e scientifico e così io scelsi il secondo. Furono cinque anni di chiacchiere (ovviamente) e di mia resistenza nei confronti della matematica e della fisica. Intanto leggevo, ascoltavo cantautori e grunge, mi innamoravo di ragazzi impossibili e scrivevo diari. Dichiaratamente non mi piaceva per nulla essere al centro dell'attenzione, ma in realtà lo facevo, chiedevo aiuto in tutti modi indossando pantaloni troppo larghi e facendomi notare per le mie incompetenze logico-matematiche, da me stessa ulteriormente amplificate.

Osservavo tutti, compagni e professori, dall'esterno ma mai troppo. Non ero infatti una di quelle adolescenti troppo difficili, forse non avevo il coraggio neanche di essere troppo fuori. Mi piaceva di più tenere i piedi in due staffe, non si sa mai.

Quello che penso ora, seduta dall'altra parte della classe, è che in realtà a nessuno è mai venuto in mente di chiedermi perché avessi letto l'intera opera di Gabriel Garcia Marquez invece di spendere qualche minuto in più sul libro di fisica. Le ragioni le so, e la colpa non è di nessuno. Anche chiedendomelo non avrebbero risolto nulla. Come non avrebbero potuto risolvere i grossi problemi familiari del mio compagno Tizio, quelli psicologici di Caio, quelli di Sempronio con la sua ragazzetta - che tra tutti erano quelli più divertenti. Non c'è il tempo, non ci sono le competenze e non è sempre giusto (lo credo fermamente) avventurarsi troppo in certi campi.

Però io quest'anno non ho spiegato tutto Dante, ma ho fatto tante altre domande, ho provato a dare alcune risposte e sono contenta così. Tutto grazie a quella Sara lì, che aveva giurato che lei la professoressa non l'avrebbe mai fatta.

mercoledì 20 agosto 2014

ODIO 2

I miei sentimenti d'odio cominciano a diventare veramente onnipresenti.

Odio sempre di più, nella stessa misura nella quale continuo ad amare quando serve, quando voglio, chi voglio.

Odio gli ignoranti. Odio non poter dire tutto quello che penso. Odio quando non posso dire quelle che penso agli ignoranti e cioè che dovrebbero tacere perché non possono parlare di tutto e di tutti, ignorando. E ad alcuni vorrei dire pure che dovrebbero essere disoccupati, perché chi non sa fare un lavoro quel lavoro non lo deve avere. Siete un peso, siete un peso per la società.

E vi odio, perché se leggete un post che parla di vaccini su internet non potete parlare di medicina. Se avete visto un documentario non potete parlare di storia. Se avete visto un servizio del TG1 non potete parlare dei musulmani. Se pensate che i ricercatori si eccitino sessualmente facendo la vivisezione (ma dove poi? quando? andate a parlare di vivisezione con una persona che lavora in un laboratorio) e non mangiate carne, non avete diritto di parola. Almeno non su questo, non con me. Ergo, vi odio.



Odio quelli che non pagano il biglietto sui mezzi pubblici. Li odio perché lo so che poi si lamentano e poi votano Grillo. Piagnoni ignoranti, anche voi, tacete e pagate.

Odio quelli che non riescono proprio a capire il perché, perché, perché mai una giovane (ancora per poco) donna abbia deciso di studiare, quando avrebbe potuto benissimo sposarsi, fare la parrucchiera o l'estetista. Odio quelli che non riescono a capire perché non emigro, gli stessi che quando non sono in Italia o progetto di partire mi danno della fricchettona esterofila.

Odio i fricchettoni, ma quello lo sanno tutti. Odio i cani dei fricchettoni. Perché è facile fare gli animalisti con le zampette e il pelo degli altri. Però guai a dirlo che poi passi per quella crudele. Non è crudele invece quella famiglia schifosa del piano di sotto, che lascia il cane piangere ore e ore e notti e notti e giorni e giorni su un balcone di due metri. No no, sono cattiva io che dentro un ristorante mi sono ritrovata con un cane che mi leccava i piedi. è giusto così.

è giusto difendere i diritti delle bestie, dire che si deve dialogare con una sottospecie di terroristi bestie, però i rifugiati che vengono dai paesi distrutti dalle guerre e dalla povertà no. Loro portano l'ebola, stuprano, rubano, ti rubano il lavoro... ma sai che ti dico io? Questo:



Poi odio doppiamente, perché magari mentre ti odio tu te ne vai in Chiesa a far finta di pregare. E ti odio triplamente, perché neanche capisci i messaggi di base di quella religione che credi di professare. Ma sei perfettamente in linea con gente che è addirittura salita al soglio pontificio, tipo Alessandro VI, e non solo.

ma li odiavo già qui?

domenica 15 giugno 2014

Pasolini aveva trent'anni

Pasolini aveva aveva su per giù trent'anni quando trovò posto come insegnante in una scuola media paritaria di Ciampino. All'epoca quella che è ormai ufficialmente e da qualche anno una città, era un borghetto campagnolo lontano più di mezz'ora di treno dalla stazione Termini. Era la terra coltivata di Marino, più qualche casa, gli sfollati, qualche lavoratore dell'aeroporto militare.

Io ho trent'anni, da qualche mese e oggi, nel secondo giorno dalla chiusura del mio primo incarico in un centro per la formazione professionale del comune di Roma. 
Una scuola di Ostia, Ostia dove Pasolini ha portato qualche volta in gita i suoi studenti ciampinesi, Ostia dove Pier Paolo si è spento.

Per questo e per altri motivi sto in questo periodo riscoprendo Ciampino, luogo dove sono cresciuta, e Pasolini, figura di intellettuale insolito, che ho sempre tenuto alla larga da me, per timore reverenziale, per pigrizia, per non so cos'altro.

In questi mesi mi sono sentita così vicina a lui, a lui giovane, insegnante, squattrinato. A lui che cercava di trasmettere ai suoi studenti l'amore per la poesia e uno sguardo diverso sulla realtà.

Non ce l'ho fatta a fare nulla di tutto questo, perché non ho avuto il tempo, perché non né ho la capacità, perché non ho neanche questo incontenibile amore per i versi. Io preferisco la letteratura e la storia. E il tempo, per farmi apprezzare.

Qualche giorno fa leggevo alcuni temi delle mie studentesse, in procinto di abilitarsi al mestiere di estetista. Gli ultimi temi, quelli per la valutazione di fine anno. I temi di chi ha già la licenza media, qualche esperienza fallimentare nella scuola statale, storie d'amore fallite, famiglie disastrate, tanta tv vista, quasi tutte l'età per votare.

Tra una correzione e l'altra mi informavo su Pasolini, sul suo modo di essere professore nell'Italia del dopoguerra. Il giovane friulano, ricordato da studenti e famiglie di Ciampino come educato, gentile, dolce, chiedeva ai suoi studenti di raccontare la realtà. Voleva distogliersi dai temi melodrammatici, inventati, tanto in voga nella scuola italiana dell'epoca. Gli unici accettati. Pasolini voleva invece leggere della loro vita, voleva che imparassero a guardare e raccontare la loro vita.

La lezione di Pasolini, ma anche quella di Don Milani, quella del '68 e di tutto il resto, non è arrivata a Piazzale Gasparri. Non è arrivata tra gli adolescenti che la scuola pubblica perde, senza neanche accorgersene, eppure così consapevolmente e colpevolmente. Gli scritti delle mie studentesse sono melodrammatici, romantici senza il sapore dei romanzi rosa, fantasiosi di una fantasia che si può facilmente "sgamare" perché semplicistica, senza appigli, con trame stranote. L'amica traditrice, il ragazzetto romantico, il calpestare sentimenti troppo astratti e manieristici.

Pasolini aveva trent'anni, io ho trent'anni. Ma io non sono Pasolini e questi trent'anni sono tutta un'altra cosa.Qui e adesso, anche per chi ne ha diciotto.

lunedì 2 giugno 2014

I miei nonni, tanti 2 giugno e la speranza.

Stamattina, al mio risveglio, ho pensato ai miei nonni.

Ho pensato a loro quattro che quel 2 giugno hanno fatto una scelta. Sono usciti di casa e sono andati a votare.

Tra loro quattro solo due sapevano leggere e scrivere e lo avevano imparato per puro caso. La mia nonna materna perché, rimasta orfana di padre dopo il terremoto di Avezzano del 1915, era stata affidata ad un ente di assistenza e lì, un collegio di suore, aveva frequentato le prime quattro classi elementari. Ci diceva sempre che era stata scelta dal benefattore per continuare la scuola e diventare maestra, ma poi il benefattore era morto e lei è tornata a casa, 12enne e pronta per imparare a tessere e a fare la moglie.

Il mio nonno materno, invece, aveva imparato da solo. Probabilmente sotto le armi, quando nel 1915 si era ritrovato ad avere proprio 18 anni. è ricordato da chi lo ha conosciuto come un uomo estremamente intelligente e ingegnoso. Il mio più grosso fantasioso rammarico è di non aver ereditato da lui null'altro che la lingua, almeno a quanto dicono.

Il mio nonno paterno ci era andato molto vicino e aveva frequentato qualche giorno di scuola. Ma il mio bisnonno, quando aveva visto che i giorni passavano e il piccolo non imparava a leggere e a scrivere aveva deciso di non mandarcelo più.

Del rapporto con la mia nonna materna e l'alfabetizzazione non so quasi nulla, ma quando penso ai miei studi, spesso penso proprio a lei. Li sto leggendo io tutti i libri che lei non ha potuto neanche toccare, impegnata a costruirci un futuro e a difenderci dalla ritirata tedesca in Ciociaria.

Ho pensato a loro, non per farne l'apologia. Ho pensato a loro e alla loro forza, alla loro speranza. A loro che nonostante tutto quel 2 giugno devono essere stati felici, almeno un po'.

E penso a me, seduta qui a pensare al futuro, con momenti di sconforto senza precedenti, quando tutto sembra crollarmi addosso e non so come agire.
E ripenso a loro, di nuovo a loro, che forse saprebbero spiegarmi come si fa a rialzarsi.

Buon 2 giugno di memoria e speranza a tutti.




mercoledì 2 aprile 2014

L'insostenibile pesantezza del freelance

Freelance è una parola bellissima, etimologicamente parlando. Pensate che pare sia stata coniata da Sir Walter Scott, parlando di cavalieri.

Ma la sostanza è altro ed essere freelance fa schifo, senza mezzi termini. Non fraintendete, io sono una sostenitrice della mobilità, sarebbe il mio sogno. A me piacerebbe molto zompettare da un lavoro ad un altro, da un ambiente ad un altro, da colleghi ad altri, tra attività varie tra loro ma tutte ugualmente stimolanti. La mia essenza è questa: vivere di diversità e pluralità, fare molte cose per non annoiarmi mai. Ma c'è modo e modo.

Se sei freelance qui e adesso, devi accettare tutto, 'che mica è detto che sei sempre freelance, per la maggior parte del tempo sei disoccupato. E così ti ritrovi in contesti e ambienti non sempre ameni, dove l'ultimo arrivato è accolto in modalità random, a seconda dei rumori e degli umori.

Di solito il freelance è quello più giovane, più titolato ma meno esperto (non nel lavoro, attenzione, ma meno esperto di quell'ambiente) che viene o sfruttato o ignorato. Ultimamente a me è capitata soprattutto la seconda situazione: non vengo convocata alle riunioni, non vengo chiamata per iniziare il corso del quale sono l'unica insegnante (sìsì, avete capito bene, gli studenti erano tutti in classe, pronti ad iniziare, ma nessuno aveva chiamato me!), non mi si dice nulla di come dovrei impostare il mio lavoro, mi si prende anche a male parole -poi- perché "noi credevamo fosse scontato". E certo, io posso immaginare quali siano i vostri usi e costumi (che cambiano di anno in anno) in modo telepatico o perché qualche divinità mi appare in sogno con l'obiettivo di spiegarmi tutto. Scusate tanto, ma io spero che le divinità mi interpellino per altro.

Essere freelance fa schifo, perché mentre hai ferie lunghissime non volute, in periodi orrendi e con le tasche vuote e bucate, ti ritrovi a non poter avere neanche un giorno per una gita fuori porta, neanche un giorno per andare a fare una visita medica, quando in teoria avresti quei quattro soldi per fare entrambe. Per non parlare poi delle altre tutele, del welfare, dei sostegni alla disoccupazione. Il freelance non ha nulla. E voi non sapete quanto mi piacerebbe avere l'assegno di disoccupazione, ma io ce l'ho scritto in fronte "lavoro occasionale". Quindi niente, basta, sono un mezzo evasore senza tutele.

Essere freelance fa schifo, perché devi sopravvivere al fianco di persone in odor di pensione, grasse, sedute e immobili, che si permettono anche di darti consigli su come portare avanti la tua vita e fare anche commenti. "Ma qualche supplenza nelle scuole pubbliche?", "Ma prova ad aprirti un'assicurazione sulla vita", "Non hai la macchina?!". No, non potete. Non potete perché non sapete niente di me, non potete perché è anche colpa vostra se io sto così e i vostri lipidi cerebrali continuano ancora a farmi solo del male.

Essere freelance a Roma è insostenibile, con o senza automobile. Unica nota positiva, sto leggendo romanzi su romanzi, sfruttando scioperi dei mezzi pubblici, ritardi dei treni e per cercare di non ascoltare il qualunquismo imperante delle chiacchiere altrui.

Essere freelance farebbe veramente schifo se non avessi un infinito amore per quello che faccio, se non avessi gli studenti (alcuni dei quali si preoccupano veramente e attivamente per me ed io non so come ringraziarli) e se non avessi ancora attacchi di entusiasmo e di ottimismo, come oggi - anche se non sembra.


domenica 23 febbraio 2014

definirsi, delinearsi, capirsi, delimitarsi, trovare un posto nel mondo

è dura realizzare di dover abbandonare i propri sogni, soprattutto quando ancora non si riesce a capire se questo sogno lo era poi effettivamente.

Forse è stata una perdita di tempo, tre anni in più, tre anni in meno. in realtà lo avevo capito, avevo già perso le speranze, stavo già mirando altrove. poi ogni tanto accade qualcosa che mi fa tornare indietro. Ma è per poco, e prima o poi dovrò decidere.

Adesso ci penso spesso, un po' mi fa male, un po' lo so che lo avevo detto.

Forse invece è proprio ora che sto perdendo tempo.

Chi lo sa.

sabato 8 febbraio 2014

Diario di una maestra: e ad un certo punto capisci che stanno imparando l'italiano

Sgombriamo subito il campo dai sentimentalismi, io insegno italiano a stranieri perché mi piace, perché da sempre ho questa passione viscerale per la gente che si sposta, ma anche e soprattutto per guadagnarmi il pane.

Però è tutto molto di più di un piacere e una passione e, allo stesso tempo, non è assistenzialismo sentimentale (cerco da anni un termine adatto a rappresentare un certo atteggiamento buonista nei confronti dello straniero e di ciò che gravita attorno, e lo troverò, prima o poi).

Un esempio. Oggi, a fine lezione, le mie studentesse erano come prese da una entusiasmo indescrivibile. Parlavano, ridevano, si sono avvicinate a me, una mi ha abbracciato, un'altra mi ha tenuto la mano per qualche secondo. Hanno iniziato a farmi domande sui miei gusti culinari -poverine, pensavano di cavarsela facilmente, visti i miei 50 kg scarsi, e invece non hanno capito che dentro di me si nasconde una mangiona appassionata di cibi del mondo!- e sulla nostra gita, dall'organizzazione in fieri.

Le osservo da un paio di settimane e non rivedo le  ragazze che ho conosciuto qualche mese fa, che sorridevano voltandosi dall'altra parte, guardavano troppo il quaderno e si posizionavano in un innaturale semicerchio allargato.

Da qualche settimana mi guardano negli occhi, alzano la mano appena non hanno capito qualcosa, mi fanno domande personali ma discrete, mi salutano sempre con "Allah Hafes".

Non è accaduto nessun miracolo, non siamo di fronte a nessuna piccola e mansueta donna che ha scoperto la bellezza di vivere in occidente. Non siamo di fronte a un'insegnante in stile film/romanzo di formazione, che apre le menti e salva i poveri studenti sull'orlo del baratro.
Siamo di fronte a molto di più, o molto di meno, a seconda dei punti di vista:

le mie studentesse stanno imparando l'italiano, con tutto quello che vuol dire .

Lo stanno facendo in un ambiente disteso, con una persona che lavora con loro con passione e alla pari, con la loro forte volontà di apprendere. Nulla di eccezionale.


In tutto ciò c'è dentro anche S., che è in Italia da un mese e viene al corso da una sola settimana. è lei che oggi, a fine lezione ha detto, in una delle sue prime frasi in italiano, con lo sguardo serio, che nulla ha a che fare con l'adulazione, ma è uno sguardo di una donna adulta che sa pesare le parole: "Io piace te".  e qui altro che sentimentalismi, qui scende la lacrimuccia, qui mi ricordo che è per questi sprazzi di sentimentalismo che questo qui deve essere un mestiere e non un passatempo, non il mio passatempo, il mio mestiere...


domenica 19 gennaio 2014

ODIO

C'è uno spirito adolescenziale, che non passa e mi fa odiare. Sì, perché io odio, disprezzo e non sopporto, più di quanto ami. E amo profondamente, persone, cose e luoghi.

Odio le fiction, il canone Rai e i giornalisti. Odio i programmi di approfondimento e i loro effetti sugli spettatori.

Odio chi mi sta intorno e non mi capisce. Odio chi non capisce che mi sto logorando di pensieri, che mi sto facendo del male pensando, che faccio altro per non pensare ma che proprio non ce la faccio. E odio stare così. Odio piangere. Amo solo la spalla triste sulla quale piango.

Odio l'odore di fritto, odio le scarpe che odorano eccessivamente di plastica scadente, odio il rumore che fanno le persone mentre masticano, bevono e si rilassano.

Odio i politicanti, odio la politica, non mi interessa più. Odio gli spiritosi, anche quando mi fanno ridere, perché riescono a ridere, perché possono ridere. 

Odio tutti quelli che invidio.

Odio l'opinione pubblica, le opinioni del pubblico, le opinioni del mio vicino. Perché odio criticare, ma devo farlo quasi sempre, quando li sento parlare.

Odio il paternalismo e il buonismo.

Odio chi ha un lavoro, perché io non ce l'ho. 

Odio i militanti dell'ultima ora, ma anche quelli della prima ora che sanno tutto. Odio militare, vorrei essere libera. Odio essere troppo libera, avere troppo tempo libero e di conseguenza sono costretta a militare. Ma lo odio, odio essere etichettata come militante.

Odio farmi aspettare, odio dover aspettare. Odio il fascino dell'attesa, odio il logoramento dell'attesa, odio perdere tempo nell'attesa.

Odio farmi i fatti degli altri, perché so che lo faccio perché li odio. Odio, odio e odio. 
Odio la loro stupidità, il loro apparire, il loro sentirsi migliori. E odio pensare che qualcuno creda che, anche io, odiando pretendo di ergermi a migliore.

Odio non avere un posto. Odio non avere un posto dove passare tempo di qualità. Odio l'assenza prolungatasi di tempo di buona qualità.

Odio stare qui a scrivere, odio essere ancora un'adolescente.

lunedì 13 gennaio 2014

Ma che lavoro vorresti fare?

Da grande avrei voluto fare la ricercatrice in Storia e l'insegnante di italiano per stranieri. Per ora ci provo e ne parlo(del secondo sogno, il primo ormai si allontana sempre di più) qui

mercoledì 27 novembre 2013

Berlusconi è decaduto!

Non posso esimermi dallo scrivere. Sento l'irrefrenabile voglia di far parte di tutta l'immondizia che si scrive e si dice in queste ore frenetiche, dopo vent'anni. Cavolo, dopo vent'anni. Sono cresciuta in mezzo a questa immondizia, mi sento parte di quell'immondizia, ma una parte che merita di finire nella differenziata per essere salvata.

A dire la verità, forse ci siamo già salvati da soli.
Forse siamo così forti, geneticamente immuni a tutto questo, resistenti per natura.
E abbiamo lottato, studiato, lavorato e non siamo diventati né falchetti né colombe, non ci siamo fatti imbambolare da nessun populismo, non abbiamo emulato i nostri predecessori che nei decenni precedenti hanno creduto all'abbondanza, senza scavare neanche un attimo.

Non siamo neanche finiti come molti dei nostri contemporanei, dei quali forse non so più che cosa dire. Che dire di chi orgogliosamente vota Berlusconi, non ha voluto diplomarsi, lavora per raccomandazione e fa la morale a noi, che ci arrampichiamo con le nostre sole forze, che ci sforziamo di non risultare né eccentrici né banali, ma solo onesti e normali?

Leggo molto, leggo di tutto. In questi giorni ho letto anche opinioni di una certa Selvaggia Lucarelli (ma chi è?), ho letto dichiarazioni dei 5stelle, ho interpretato per quanto mi è possibile interviste televisive che mi davano il voltastomaco.

Ebbene, Berlusconi è decaduto. Ma nessuno ha il coraggio di dire che gli italiani vanno a vedere Checco Zalone non perché vogliono passare semplicemente un pomeriggio di leggerezza. Nessuno riesce a farsi sentire quando cerca di spiegare che la sperimentazione animale non ha nulla a che vedere con le foto degli animali maltrattati. Nessuno, dico nessuno, insulta Carlo Conti e i suoi autori per il sessismo di alcune gag che propone nel suo programma pre-tg su Rai 1.

E sapete perché, penso io? Perché in questi Venti anni, con o senza Berlusconi (ma con Berlusconi di più) ci siamo appiattiti, ci siamo cullati sui nostri difetti più fastidiosi e li abbiamo coltivati. E così oggi vediamo Checco Zalone, perché forse non troveremmo nulla di divertente in un Woody Allen italiano, spariamo a zero contro i ricercatori che sono costretti ad emigrare (ma avremo tanti beagle felici, questo è certo - come se i ricercatori cattivi facessero ricerca sul vostro animale domestico, certo), e facciamo tutte le campagne del mondo contro la violenza sulle donne, ma ci farà sempre ridere la velina stupida che canta i Beatles come una cornacchia, mentre Carlo Conti ride. 

domenica 13 ottobre 2013

Nooralee che partì con i giullari

Tawdin era speciale. Nelle sue mani ogni oggetto veniva plasmato, trasformandosi ora in un mostro, ora in un angelo. La medesima fantasia, il medesimo gioco che Nooralee gli sottoponeva potevano portare alle lacrime più disperate oppure alla più sonora delle risate.

Nooralee non capiva come, non capiva in quale momento avveniva la mutazione, eppure nessuna polvere magica offuscava i suoi occhi e nessun sonno improvviso la colpiva.
Almeno non quando era con Tawdin.

Ma da qualche tempo, quando lui era lontano, impegnato nelle riunioni dei giullari o ad allietare altre corti, la fanciulla cadeva in inspiegabili sonni, sebbene egli non dimenticasse mai di ricevere i segnali delle nuvole viola sbriciolate della principessa, ogni volta che poteva.
Nonostante ciò, ella iniziava ad avvertire mancamenti e, come se nulla fosse, cadeva sovente in sonni profondissimi.

Durante questi lunghi momenti, stranamente, Nooralee non sognava. Non riposava. Non sentiva la voce di Tawdin. Non sperava di rivederlo presto. Dimenticava di ideare nuove trame da tessere insieme, non sapeva come né quando uscirne fuori. Non teneva più conto degli impegni di corte, dei quali un tempo non mancava di aver cura.

Tawdin era preoccupato e ogni sua soluzione sembrava vana. Arrivò un momento nel quale neanche la sua presenza bastava, il sonno arrivava, e ad ogni assopimento di Nooralee seguivano risvegli burrascosi.
Non poteva e non voleva più lasciarla sola. Inventò nuovi giochi, invitò nuovi amici, raccontò nuove storie.

Nooralee migliorò, lentamente.

Giunse il momento, però, di una nuova doverosa partenza per Tawdin. Il giullare non ebbe paura e chiese a Nooralee: "Vuoi venire con me?".
Nel regno di Kajir non era mai accaduto: una principessa nella carovana dei giullari.

Tawdin era veramente speciale, e forse neanche Nooralee se ne rendeva conto.

  http://farandolerie.blogspot.it/2012/12/nooralee-che-divento-un-giullare.html

mercoledì 25 settembre 2013

Disoccup-Arty: le arti del riposo forzato.

Ci provo ad essere ottimista. Ma non è proprio nella natura delle cose.
Nella mia di natura sì, l'ottimismo, il sarcasmo e l'autoironia trovano spazio.
Ma nel buco nero davanti a me, che pure vedo infinito e di spazio ce ne sarebbe,  niente trova collocazione. Né le speranze, né le attese.

Mi sveglio, accendo il computer invio la mia dozzina di curricula quotidiani.
Do un'occhiata alle vecchie candidature.
Sistemo il  cv, il profilo linkedin e perfino quello di facebook.
Mi metto a lavorare su due saggi che sto preparando. Che si sa, bisogna accumulare pubblicazioni.
Aspetto risposte a progetti, a richieste di informazioni, a candidature inviate.
Guardo continuamente il cellulare.
Controllo le email. Ma mi vogliono solo vendere qualcosa o truffarmi.
Leggo i commenti degli altri sui social network. Arrivo ad odiarli e invidiarli.
Mi informo, penso all'accanimento giudiziario.

Poi mi viene voglia di uscire . Avrei voglia di fare foto, ma non scatto da quando ero a New York.
Avrei voglia di scrivere. Ma, come adesso, riesco ad essere solo troppo lamentosa.
Penso a chi sta meglio. Non mi passa neanche per la testa che qualcuno potrebbe stare peggio.
Potrei perdere di vista la realtà, mentre ho già perso la gioia per certe piccole cose.
Il mare, le montagne, gli alberi, i parchi di Roma. Il sushi, il vento, un buon libro.



sabato 7 settembre 2013

Crudele autunno romano

Dicono che da lunedì inizierà l'autunno. Se ne andrà il caldo e arriveranno freddo e pioggia.

Sono seduta in balcone, e sto provando a sorprendere il primo fresco autunnale, voglio sentire sulla mia pelle se è vero quanto ho sentito dire. Ho fretta.
Ma c'è ancora la domenica di mezzo e per ora ascolto solo voci di bambini a cena dai nonni, le risate delle giovani madri delle quali immagino l'abbronzatura ancora in vista, i piedi di ragazzini sull'asfalto, veloci per un nascondino, per un primo amore, per non so che cosa.

sono tutti rumori che non mi danno fastidio e che mi concedono il tempo di rispolverare la mia estate e di pensare al mio autunno.

Dell'estate appena trascorsa non posso lamentarmi. Ho un nuovo titolo in tasca, sono stata a New York, non ho sofferto il caldo. Mi mancano alcune cose, ad esempio l'odore del mare. Mi è mancato costantemente qualcuno, ma posso rimediare.

Ma è l'autunno che mi preoccupa, la mia stagione preferita. è l'autunno romano che mi entra dentro e mi toglie il respiro, mi fa riflettere, mi fa male.
Il problema è solo uno: Roma è la mia casa e faccio una fatica enorme nel pensarmi altrove. Forse a New York, se non ci fosse l'oceano di mezzo, forse a Parigi se in Francia si fosse un lavoro per me, forse nella campagna inglese se avessi il coraggio di compilare qualche application form. Forse in Asia se non avessi paura di cambiare tutto.

Forse in estate. Sì, vorrei vedermi nella prossima estate. Ad un anno da oggi, con tanti pensieri in più, con un po' di coraggio in più.
Chissà dove saremo. Chissà come saremo.

Non pensare da sola,
non pensare al futuro.

La dolcezza in due parole.

Ci penseremo insieme,
quando sarò tornato.


Ma da dove viene tutta questa sicurezza?


Non ti preoccupare,
non ti preoccupare, 
voglio vederti sorridere...





mercoledì 31 luglio 2013

Perché dovremmo e potremmo dirci tutte "femministe"

Sarà questo caldo che proprio non sopporto, sarà che il nuovo titolo di dottoressa di ricerca mi manda oltremodo in tilt, sarà perché sono allergica alle etichette, sarà quel che sarà, ma sento il bisogno di scrivere qualcosa di detto e ridetto ma di non compreso e non ricompreso.

Scriverò sul femminismo. Su questo spettro che si aggira a Oriente e Occidente, su un termine che ancora spaventa. Una parola magica usata ancora per denigrare. "Femminista" è il sinonimo di zitella brutta e acida che non ha rapporti sessuali e odia gli uomini, o di lesbica che odia il mondo. Sinceramente, io, che sono il campione sul quale sto effettuando la ricerca in questo istante, sono eterosessuale, mi sento carina, mi piacciono i bei vestiti e amo gli uomini. Eppure mi sento femminista, perché sento che a noi donne manca ancora qualcosa e non vedo perché non dovremmo cercarlo, ancora una volta, insieme.

"Femminismo" è un termine che purtroppo le stesse donne usano per descrivere le donne diverse da loro. è un modo di essere che, alcune delle stesse che femministe si dicono, concepiscono come categoria per ghettizzare se stesse o le altre. E anche questi comportamenti, da molti, sono utilizzati per infangare il femminismo e le donne, incapaci secondo loro di fare gruppo. E si sa, se non riesci veramente a far gruppo vuol dire che poi tante valide recriminazioni da fare non le hai.

Ma che colpa abbiamo noi? Nessuna. Perché non si riesce a trovar pace? Mancanza di sicurezza. Diffidare delle altre donne, non avere fiducia in chi cerca di interpretare a modo suo la propria femminilità, i propri bisogni e i propri diritti è si sbagliato. Ma la diffidenza è uno dei tratti che contraddistingue i gruppi e i popoli che sono sempre stati sottomessi. Quindi, non va bene, e dietro ogni "non va bene" c'è sempre una o mille spiegazioni. Ma superiamolo, superiamoci.

Il risultato di tutto ciò, comunque, è lo sfaccettamento  in negativo di ciò che dovrebbe essere sì sfaccettato, ma patrimonio comune e alla portata di tutte e di tutti.
Un prisma multicolorato di sfumature che si posano, infine composte, in una tonalità unica e decisa.
Un colore che sta bene a tutte e a tutti.

A me che piace spendere i soldi in trucchi, libri e vestiti. A lei che senza tacco 12 non ce la fa proprio a camminare. A lei che non vuole depilarsi. A lei che ama lei. A lei che ama lui. A lei che è amata da lui senza essere giudicata da loro. A lei che va in Chiesa. A lei che sale fin dove è lui. A lui, a lui ed anche a lui. A lei che ha un figlio e a lei che non lo vuole. A lei che a 40 anni ha voluto cambiare vita. A lei che indossa gli shorts. A lei che sta lottando per non coprirsi. A lei che ha deciso di coprirsi. A noi, che crediamo che le parole non sono solo parole, ma hanno dietro secoli di pratiche interiorizzate e, perciò, vanno usate a modo. A lei che sceglie. A lui, a lui ed anche a lui. A me che ad un colloquio non voglio essere guardata dal collo in giù, non voglio rispondere a domande sulla mia vita privata... A lei che non è puttana perché semplicemente sa il fatto suo e non si fa raggirare. A tutte noi. A noi, a tutti noi.

Mille femminismi, per uno solo: donne e uomini diversi, che nel loro piccolo, superano e si superano.

mercoledì 19 giugno 2013

Nonna Teresa e l'America

Nonna Teresa in America non ci voleva proprio andare. L'America è lontana, gli disse la vicina, quella là che era rimasta sola con figli e marito all'altro mondo e chissà mai se li avrebbe rivisti. L'America fa paura, è quasi un miracolo se ci arrivi, Tere', su quella nave nera nera che a Napoli già puzza di tutto quello che manco Dio lo sa. In America, Terè, il cielo non lo riesci a vedere e rimani chiusa dentro e non vedrai più montagne, che dietro alle montagne lo sai che c'è Roma e il Papa e da qualche parte, non lontano, c'è pure il mare. Dicono che è bello il mare, ma io non l'ho mai visto Tere', ma quando ho visto quella foto di mio figlio, ah, commà, il mare era nero e vicino e mio figlio chiaro, col vestito buono e nient'altro.

Nonna Teresa aveva lasciato partire nonno Ambrogio, che tanto lui avrebbe lavorato qualche anno e poi sarebbe tornato e avrebbero comprato la casa o forse la terra e poi costruito sopra la casa. Qualche anno bastava, mangiando carne almeno una volta a settimana e aspettando che 'sti mammocci se fanno grossi e pigliano moglie. Giuseppe è tanto bello, coi soldi americani lo farò sposare a una regina.

Nonna Teresa così aveva aspettato e poi era arrivata la guerra e nonno Ambrogio era tornato. Tere', m'hanno richiamato, ma io qua non ci resto. Tere', dovresti vederla l'America. Ci sta tutto, i figli sono bianchi e rossi, lavori, guadagni, Tere', vieni in America, ti faccio fare la signora. Avrai cento vestiti e una casa vera, con la luce, e 'sti figli ti giuro Tere', li mando a scuola e li faccio tutti maestri e dottori.

Nonna Teresa in America non ci voleva andare. Rimango qua, che vedo il sole ogni mattina, rimango qua che qua voglio vedere nascere i miei nipoti e li voglio che parlano italiano. In America con te non ci vengo, che chissà che fai laggiù, che già m'hai dimenticato e me l'hanno detto che ti hanno visto con una, quello di Segni t'ha visto, il calzolaio, e me l'hanno detto che abiti come le bestie nelle stalle, senza manco un letto. No, io non ci vengo in America, io me ne resto qua.

lunedì 6 maggio 2013

La festa della mamma

A maggio si festeggia la festa della mamma. Non mi chiedete in quale giorno, perché non lo so. è peggio della Pasqua, so sempre e solo che cadono entrambe di domenica.

Anche se la mia mamma non leggerà, vorrei omaggiarla a modo mio. Lei, come tutte le altre mamme come lei.
Le mamme della sua generazione hanno un grande peso, quello di vedere la vita dei loro figli scorrere in maniera molto meno lineare e più problematica della propria. Non dico che le loro vite siano state facili, tutt'altro. Dico che loro avevano qualche speranza e che, quasi tutte quelle che hanno potuto e voluto, sono riuscite a migliorare la loro situazione e di molto. è migliorata la loro condizione in quanto donne, in quanto giovani, in quanto creatrici di famiglie, in quanto lavoratrici.
Mia madre viene da una famiglia poverissima dove analfabetismo e sfruttamento del lavoro erano la norma. Questa norma non è mai stata nascosta a me e a mio fratello, che oggi, dall'alto dei nostri 110 e lode, guardiamo tutto con quella criticità dei novelli intellettuali, dei figli del proletariato che ce l'hanno fatta, forse in ritardo di almeno una generazione rispetto al mondo.

è di quelli come noi che vorrei parlare, e delle rispettive mamme. Benché si faccia un gran parlare di fughe di cervelli e di laureati spazzini a me sembra e vedo attorno a me sempre la medesima retorica. Nei media la mamma da talk show è la madre che urla e si dispera perché vuole un aiuto dallo stato (lecito, ma...) per il figlio disoccupato. Figlio choosy, in molti casi. Sarò impopolare ma io, che momentaneamente non ho un lavoro fisso e faccio parte della delusa generazione Erasmus, in quelle immagini non vedo né me né mia madre.
Non vedo la dignità di mia madre che mi consola nei momenti di sconforto e che non urla, ma è orgogliosa di tutto quello che faccio con le mie forze e mi spinge solo a fare di più, come artefice del mio destino.

In questi giorni mi ha detto delle frasi che mi hanno fatto pensare. Mi ha detto che è contenta che mio fratello e io siamo così, e che non abbiamo paura di ripreparare ogni volta quella valigia, anche se - in caso - preferirebbe Parigi e Berlino a Toronto e Sidney.

Forse è solita attenuare i nostri comportamenti perché sa che è la storia della sua famiglia ad averci iniettato il seme del viaggio, la facilità di parlarne e di fare progetti. Non lo dice mai esplicitamente di conoscere l'origine, ma mi è sembrato che lo abbia fatto, qualche mattina fa, quando mi ha ricordato che è la seconda volta, dopo il bisnonno Ambrogio, che qualcuno parte per New York.






A mia madre
De Amicis
Non sempre il tempo la beltà cancella
o la sfioran le lacrime e gli affanni
mia madre ha sessant’anni e più la guardo
e più mi sembra bella.
Non ha un accento, un guardo, un riso
che non mi tocchi dolcemente il cuore.
Ah se fossi pittore, farei tutta la vita
il suo ritratto.
Vorrei ritrarla quando inchina il viso
perch’io le baci la sua treccia bianca
e quando inferma e stanca,
nasconde il suo dolor sotto un sorriso.
Ah se fosse un mio prego in cielo accolto
non chiederei al gran pittore d’Urbino
il pennello divino per coronar di gloria
il suo bel volto.
Vorrei poter cangiar vita con vita,
darle tutto il vigor degli anni miei
Vorrei veder me vecchio e lei…
dal sacrificio mio ringiovanita!


sabato 4 maggio 2013

Un dottorato in storia è qualcosa di più, perché ci sono le fonti.

Il momento più bello è sicuramente quando si passa alla carrellata delle fonti. Quelle ultime 2-3 paginette nelle quali ogni storico che si rispetti si vanta degli archivi che ha consultato.

Ci sono varie scuole di pensiero, da chi ne elenca moltissimi per far vedere che è un vero intenditore e una sorta di globe trotter delle sale studio e degli scaffali impolverati, a chi sostiene che archivi e fonti sono un po' come gli amici, meglio pochi - pochissimi- ma buoni, a dimostrazione del fatto che si sa tirar fuori il meglio anche da due foglietti.

Poi ci siamo noi giovani storici in erba, dottorandi sul mio genere. Noi che abbiamo scelto un argomento di ricerca da espatrio. Eh sì, di quelli che almeno quel mesetto fuori debbono farselo, per arricchire la lista, s'intende. Io quei tre mesetti li ho passati a Parigi, tra festicciole per la vittoria di Pisapia, addormentandomi sulla navetta per Fontainebleau, tornando come mio solito con il doppio dei gingilli che avevo caricato all'andata.

I dottorandi come me, poi, si scelgono un argomento che l'estate li porti qualche giorno in luoghi ameni e solitari, con minori livelli di umidità rispetto alla città. Ed è per noi, credo, ma anche per gli storici anzianotti e per quelli tedeschi, che si sono inventati l'archivio di Pieve Santo Stefano ad Arezzo. Qui si mangia carne, si beve vino e la mattina si va in archivio.

I dottorandi come me, però, sono di Roma e amano moltissimo il caffè delle macchinette dell'ACS e la mensa della biblioteca nazionale. Hanno frequenti e fulminee passioni per la pizzeria di Largo Argentina, quella nota per le pizze con pancetta, cipolla e provola, mentre ormai disdegnano Benito che non è più il Benito di una volta. Io, per questo, mi faccio di sushi e di chicken roast biriyani.

I dottorandi come me, prestate attenzione, non pensano solo a mangiare. Io sono veramente veramente innamorata della mia ricerca. Così tanto che mi piacerebbe ritornare in tutti i luoghi elencati in quelle 2-3 paginette e ricominciare da capo, tanto per vedere l'effetto che fa.