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domenica 7 luglio 2013

Sensazioni di un venerdì in Moschea

La cosa più importante è l'intenzione. Questa è una delle cose, tra le altre, che ho imparato dall'Islam. Tra le tante altre cose che ho imparato dal Cristianesimo. Non posso essere ipocrita, non posso generalizzare. Non solo sono fermamente convinta che non tutti i preti siano pedofili e non tutti i musulmani terroristi, ma sono sicura che il discorso sia molto più sfaccettato e la politica, le strumentalizzazioni e gli errori dell'uomo, le contingenze storiche e i lavaggi del cervello siano un discorso altro rispetto a un essere umano che prega, a un essere umano che con le migliori intenzioni parla di fratellanza, onestà, purezza.

La mia intenzione non è quella di esaltare qualche religione, non è quella di sorvolare su alcuni aspetti delle religioni che assolutamente non condivido (ma che capisco, nella logica religiosa); semplicemente non ho l'intenzione di parlarne qui ed ora.
La mia intenzione di oggi è di raccontarvi il mio venerdì nella Grande Moschea di Roma e dirvi che in fondo, neanche troppo in fondo, a lunghi tratti mi è sembrata una Chiesa e le donne col capo coperto le amiche di mia nonna e io un'italiana per niente a disagio.

Beh, devo dire che il disagio era tutto mio, quando - arrivata con il mio gruppetto, formato dal mio insegnante di fotografia e un altro suo allievo e amico - e camminando lungo il vialetto che precede l'ingresso della moschea più grande d'Europa, ero l'unica femminuccia coi capelli al vento. Ma tutto è svanito quando ho indossato la mia pashmina, che poi, a fine funzione e arrivata fuori, ho addirittura dimenticato di togliere. Ho incontrato anche miei ex studenti, felicissimi e sorpresi di trovarmi lì. Ma questa è un'altra storia, da diario di una maestra nella Roma interculturale.

Sono entrata, abbiamo atteso l'inizio della preghiera e io mi sono seduta tra le donne. Diciamo che più che l'angolo delle donne quello è l'angolo dei bambini che giocano, imitano i loro genitori nella preghiera, si ribellano (carinissima una bambina di circa due anni che, quando tutte le donne si chinavamo per la preghiera rituale urlava "No, mamma no!", disperata. Probabilmente, sotto tutti quei veli si trovava al buio e aveva paura), corrono e si rincorrono, scalano scalini, ridono. Un parco giochi, che non ho smesso un attimo di osservare e di fotografare mentalmente, visto che non ho avuto neanche per un attimo la voglia di far foto praticamente.

La mia solitudine di italiana non musulmana è stata colmata dalla gentilezza di un'italiana musulmana, che si è offerta di farmi da guida e di tenermi accanto a lei perché - come mi ha detto avvicinandosi- "Qui tutte parlano in arabo e non capirai nessuno." Mi ha spiegato le fasi della funzione, mi ha rassicurato sul fatto che avrei ascoltato il discorso dell'imam (khutba) anche in italiano.

Dopo il discorso è arrivata la preghiera, breve, che mi sono goduta a distanza (fino ad allora ero stata tra le donne).

Ordinata, pacata, emozionante. I bambini distratti. L'amin corale che per due volte ha tuonato nell'edificio. E io che guardavo le donne: i loro vestiti colorati, quelli neri, i loro occhi bassi, le anziane che pregavano sedute su una sedia da campeggio portata da casa. A fine preghiera l'anziana donna marocchina con la sedia da campeggio, che già durante il tutto mi aveva lanciato uno sguardo sorridente, mi si avvicina, per accertarsi della mia nazionalità pakistana. Un po' delusa dal fatto di aver sbagliato, ma felice di avere un'italiana non musulmana in quel luogo, si è fermata a chiacchierare un po', a parlarmi del suo paese, di come sarebbe tornata a casa e di come sarà duro il ramadan imminente. In quel momento non stavo parlando con un'amica di mia nonna, ma quasi.


PS. Generalmente l'ingresso in Moschea ai turisti è concesso il sabato mattina, tramite visite guidate prenotabili dal sito della Moschea stessa. 

venerdì 11 maggio 2012

Diario di una maestra: Gli inni nazionali

Ieri a fine lezione ho chiesto ai miei studenti di accennare qualche nota del loro inno nazionale.
Agli iniziali tentennamenti è succeduta una voglia di cantare, raccontare, condividere.

Il gruppo di studenti d'ingegneria civile proveniente dall'Afganistan ha aperto le esibizioni, visto che erano in cinque (la rappresentanza più folta) gli è stata data la precedenza al fine di togliere un po' a tutti l'imbarazzo. Hanno parlottato un po' e poi, inaspettatamente, uno di loro si è alzato in piedi ed ha intonato la prima strofa. Tutti l'hanno applaudito. In un italiano stentato, misto all'inglese ed al francese, il "cantante" e si suoi connazionali ci hanno tenuto a far sapere a tutti i presenti che si trattava del nuovo inno, post talebani e post guerra, in lingua pashtun. Lingua che orgogliosamente, già a inizio lezione, avevano indicato come idioma materno dell'intero gruppo.

I secondi a cantare sono stati i giovanissimi ragazzi del Bangladesh, che senza esitare neanche per un secondo hanno intonato in coro "Amar sonar Bangla", quasi sussurrando. Ma avrebbero cantato tutta l'opera di Tagore se non li avessi fermati. Il fresco nazionalismo bangladese si manifesta spesso, nelle piccole grandi cose.

Dopo di loro avrebbero dovuto esibirsi due donne e un ragazzo originari della Cina. Ma non riuscivano a mettersi d'accordo sulla canzone da proporre ed hanno preso tempo, mentre due uomini del Marocco già scalpitavano. Il più giovane dei due si è alzato in piedi ed ha intonato un'allegro motivetto, mentre l'altro gli faceva sotto i coretti (che avevano per protagonista Allah, questo almeno l'ho capito!). Sono stati veramente bravi, sembrava quasi si fossero già preparati. Erano contenti, e appena finito di cantare volevano tradurre il testo. Ahimè non c'era tempo, e allora l'hanno così riassunto: "questo è perché Allah ci aiuta".

La Cina era a quel punto pronta. La donna più abile in lingua italiana mi ha subito detto che stavano per cantare la canzone più "importante" ma che ce ne sarebbero state altre che a loro sarebbe piaciuto farci ascoltare. Fatto sta, l'elemento maschile del trittico ha cantato, sorridente, mentre le due donne (più grandi di lui) lo guardavano ed io ho avuto la netta impressione che volessero controllarne l'operato.

In ultimo un ragazzo della Guinea ha intonato un assolo in wolof.  Una voce splendida, una tonalità dolce e delicata che ha accompagnato con un sorriso, in ascesa dall'inizio alla fine del motivo. Tutti sono rimasti stupiti dalla bellezza della sua voce. Ho notato un certo imbarazzo nell'applaudire, credo sia sembrato riduttivo. Più efficaci le parole, un susseguirsi di complimenti: "Bravo fratello".

La lezione era a quel punto finita. Gli afgani avrebbero voluto cantare ancora delle canzoni popolari delle loro montagne. La prossima volta. Non mancherò di ascoltarvi ancora.