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martedì 8 dicembre 2015

Lì, dove l'integrazione è impossibile

Si fa tutto un gran parlare di integrazione, di Isis, di seconde generazioni, di immigrazione sì, immigrazione no, di identità culturali e religiose.

Se ne fa, ma non si trovano soluzioni e anche i più illuminati forse non si sono mai fatti un giro dove l'immigrazione non c'è.

Da tre anni lavoro nelle scuole professionali in alcune delle periferie più disagiate di Roma, che sono anche quelle dove la presenza immigrata è più forte. Tra i miei studenti ci sono soprattutto figli di quel sottoproletariato urbano sempre dimenticato, ai quali si sono aggiunti i figli di immigrati. Figli di una spinta a migliorare, ma molto spesso figli del disagio. 

All'interno di questi gruppi le situazioni sono ovviamente diverse e molteplici sono le condizioni di partenza e di arrivo. Ci sono i figli di onesti lavoratori, che diventeranno onesti lavoratori e che spesso hanno da subito un quadro molto chiaro di quello che sarà il loro futuro. Ci sono figli di onesti lavoratori i quali non riescono a controllare questa prole perduta. Ci sono quelli finiti lì per caso, per occupare il tempo, che spesso hanno alle spalle famiglie problematiche, per i motivi più vari. 

Loro, italiani per nascita o per sangue, stranieri con permesso di soggiorno o in odor di passaporto italiano, hanno una cosa in comune: non sono integrati nella società come noi la pensiamo e non accettano l'integrazione degli altri. 

Ci ho messo del tempo per capirlo e ancora adesso mi struggo sul come poter fare qualcosa per loro. 
è in queste periferie che vedo il frutto di tutto: del qualunquismo e del populismo di Salvini e della Meloni, del menefreghismo lessicale di quasi tutti i giornalisti nostrani, di quella strana idea che il razzismo e l'omofobia siano un'opinione. 

Per i ragazzi è normale dare della "troia" a una ragazza giudicandone comportamenti, modi di vestire e comportarsi. Per i ragazzi è normale usare termini razzisti e irrispettosi delle culture altrui, ma anche della propria. 
Per questi ragazzi è normale generalizzare tramite un "noi" e un "loro" che spesso hanno dei confini imperscrutabili e insensati - per noialtri. 

Sicuramente i pratici mi tacceranno di buonismo, ma qui mi sembra che anche con loro non ci sia nulla da fare. Non si tratta di opinioni, la questione è a mio parere molto più grave.

In questi luoghi non si può neanche provare a dire che forse il mondo è proprio diverso da come viene dipinto, perché sono le famiglie, la televisione e spesso gli stessi educatori a legittimarlo. E il fatto di avere un compagno straniero, di affermare che "Aho, al Gay Village però te diverti!" non può nulla neanche come appiglio.

Il ragazzo musulmano sta seduto in un angolo, si vergogna di farsi chiamare per nome (un nome bellissimo, che a me ricorda gli imperatori ottomani) e al massimo si incattivisce e inventa nuovi insulti a sfondo razziale o sessuale. Del ragazzo e della ragazza omosessuale, poi, non posso neanche parlare. La ragazza al quale viene affibbiato un nome partendo da un comportamento sessuale presunto o meno (ma poi, che cambia?), invece, ci si abitua e non ci fa più caso.

Con amarezza e pessimismo mi viene spesso da pensare che è in una periferia come questa che è cresciuto Salah, il terrorista del 13 novembre a Parigi, ancora in fuga. Poi però penso che non devo cedere, che non posso cedere anche io a tutto questo. So che non avrò mai la soluzione, perché non è mio dovere e non posso farcela da sola (ah sì, un giorno vi dovrò parlare anche dei miei fantastici colleghi).

Penso a tutto questo e mi fermo, prendo le mie carte e preparo la lezione; devo almeno provarci. 

Quei ragazzi, domani, mi aspettano in classe.




martedì 17 dicembre 2013

Italiani brutta gente: la laureata in lingue

Oggi inauguro una nuova rubrica, che raccoglierà ovvietà, idiozie, considerazioni ignoranti e qualunquiste da me raccolte in giro per il Belpaese. 
Infatti, conoscere gente, fare colloqui, frequentare i mezzi pubblici, leggere commenti, blog e tweet in internet, porta a dover subire di tutto. Io, il più delle volte, ascolto e incasso. Intavolare discussioni è a volte inutile, a volte è meglio e più divertente ascoltare e poi memorizzare, per avere aneddoti per ridere con amici e familiari.
Ieri ho però avuto l'illuminazione, devo scrivere, condividere. E spero che le mie storielle diano il via alle vostre. Scrivete, ricordate, umiliate. Sono certa che tanti brutti italiani abbiano intralciato le vostre strade. Naturalmente sono ben accette brutte genti di qualsiasi altra latitudine perché si sa, purtroppo non abbiamo l'esclusiva.

Oggi inizierò con le esternazioni di una LAUREATA IN LINGUE.
Mi trovavo ad un colloquio e con me concorreva per quel posto di lavoro (che io non ho avuto, ma molto probabilmente lei sì) una giovane madre, laureata in lingue, nello specifico inglese e spagnolo. Questo farebbe pensare ad una certa apertura mentale, perché si sa, chi parla più lingue si impegna nel conoscere altre culture, altri sistemi, è curioso per natura. E invece no. O almeno non sempre.

La fanciulla ha infatti esternato il suo pensiero sulla lingua inglese, lasciando intendere tutto quanto aveva compreso sui diversi sistemi linguistici e culturali. A suo parere la lingua inglese è una lingua semplice, e il sistema verbale con tutti quegli infiniti (si riferiva alla "non coniugazione" della maggior parte delle forme verbali per le varie persone...) e che quindi parlando in inglese si parla "come i negri quando parlano italiano" (riferendosi a stranieri, che sono più stranieri se di pelle nera, che apprendono la nostra lingua).

Quindi, in questo pensiero non si accetta e non si comprende la possibilità e l'esistenza di lingue diverse, con strutture - anche poco - diverse dalla propria. Inoltre, si insultano i non nativi che stanno apprendendo una lingua. Non nativi che, tra l'altro, forse sono plurilingue e magari sbagliano per interferenza con le altre o semplicemente perché STANNO IMPARANDO.

Ecco, questo è soprattutto per tutti quelli che pensano che la laurea sia garanzia di qualcosa. In questo caso il titolo accademico ci garantisce: capacità di riflessione pari a quelle di una lastra di legno e amore per gli altri popoli pari a un ragazzetto di Casa Pound.