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sabato 8 febbraio 2014

Diario di una maestra: e ad un certo punto capisci che stanno imparando l'italiano

Sgombriamo subito il campo dai sentimentalismi, io insegno italiano a stranieri perché mi piace, perché da sempre ho questa passione viscerale per la gente che si sposta, ma anche e soprattutto per guadagnarmi il pane.

Però è tutto molto di più di un piacere e una passione e, allo stesso tempo, non è assistenzialismo sentimentale (cerco da anni un termine adatto a rappresentare un certo atteggiamento buonista nei confronti dello straniero e di ciò che gravita attorno, e lo troverò, prima o poi).

Un esempio. Oggi, a fine lezione, le mie studentesse erano come prese da una entusiasmo indescrivibile. Parlavano, ridevano, si sono avvicinate a me, una mi ha abbracciato, un'altra mi ha tenuto la mano per qualche secondo. Hanno iniziato a farmi domande sui miei gusti culinari -poverine, pensavano di cavarsela facilmente, visti i miei 50 kg scarsi, e invece non hanno capito che dentro di me si nasconde una mangiona appassionata di cibi del mondo!- e sulla nostra gita, dall'organizzazione in fieri.

Le osservo da un paio di settimane e non rivedo le  ragazze che ho conosciuto qualche mese fa, che sorridevano voltandosi dall'altra parte, guardavano troppo il quaderno e si posizionavano in un innaturale semicerchio allargato.

Da qualche settimana mi guardano negli occhi, alzano la mano appena non hanno capito qualcosa, mi fanno domande personali ma discrete, mi salutano sempre con "Allah Hafes".

Non è accaduto nessun miracolo, non siamo di fronte a nessuna piccola e mansueta donna che ha scoperto la bellezza di vivere in occidente. Non siamo di fronte a un'insegnante in stile film/romanzo di formazione, che apre le menti e salva i poveri studenti sull'orlo del baratro.
Siamo di fronte a molto di più, o molto di meno, a seconda dei punti di vista:

le mie studentesse stanno imparando l'italiano, con tutto quello che vuol dire .

Lo stanno facendo in un ambiente disteso, con una persona che lavora con loro con passione e alla pari, con la loro forte volontà di apprendere. Nulla di eccezionale.


In tutto ciò c'è dentro anche S., che è in Italia da un mese e viene al corso da una sola settimana. è lei che oggi, a fine lezione ha detto, in una delle sue prime frasi in italiano, con lo sguardo serio, che nulla ha a che fare con l'adulazione, ma è uno sguardo di una donna adulta che sa pesare le parole: "Io piace te".  e qui altro che sentimentalismi, qui scende la lacrimuccia, qui mi ricordo che è per questi sprazzi di sentimentalismo che questo qui deve essere un mestiere e non un passatempo, non il mio passatempo, il mio mestiere...


venerdì 11 maggio 2012

Diario di una maestra: Gli inni nazionali

Ieri a fine lezione ho chiesto ai miei studenti di accennare qualche nota del loro inno nazionale.
Agli iniziali tentennamenti è succeduta una voglia di cantare, raccontare, condividere.

Il gruppo di studenti d'ingegneria civile proveniente dall'Afganistan ha aperto le esibizioni, visto che erano in cinque (la rappresentanza più folta) gli è stata data la precedenza al fine di togliere un po' a tutti l'imbarazzo. Hanno parlottato un po' e poi, inaspettatamente, uno di loro si è alzato in piedi ed ha intonato la prima strofa. Tutti l'hanno applaudito. In un italiano stentato, misto all'inglese ed al francese, il "cantante" e si suoi connazionali ci hanno tenuto a far sapere a tutti i presenti che si trattava del nuovo inno, post talebani e post guerra, in lingua pashtun. Lingua che orgogliosamente, già a inizio lezione, avevano indicato come idioma materno dell'intero gruppo.

I secondi a cantare sono stati i giovanissimi ragazzi del Bangladesh, che senza esitare neanche per un secondo hanno intonato in coro "Amar sonar Bangla", quasi sussurrando. Ma avrebbero cantato tutta l'opera di Tagore se non li avessi fermati. Il fresco nazionalismo bangladese si manifesta spesso, nelle piccole grandi cose.

Dopo di loro avrebbero dovuto esibirsi due donne e un ragazzo originari della Cina. Ma non riuscivano a mettersi d'accordo sulla canzone da proporre ed hanno preso tempo, mentre due uomini del Marocco già scalpitavano. Il più giovane dei due si è alzato in piedi ed ha intonato un'allegro motivetto, mentre l'altro gli faceva sotto i coretti (che avevano per protagonista Allah, questo almeno l'ho capito!). Sono stati veramente bravi, sembrava quasi si fossero già preparati. Erano contenti, e appena finito di cantare volevano tradurre il testo. Ahimè non c'era tempo, e allora l'hanno così riassunto: "questo è perché Allah ci aiuta".

La Cina era a quel punto pronta. La donna più abile in lingua italiana mi ha subito detto che stavano per cantare la canzone più "importante" ma che ce ne sarebbero state altre che a loro sarebbe piaciuto farci ascoltare. Fatto sta, l'elemento maschile del trittico ha cantato, sorridente, mentre le due donne (più grandi di lui) lo guardavano ed io ho avuto la netta impressione che volessero controllarne l'operato.

In ultimo un ragazzo della Guinea ha intonato un assolo in wolof.  Una voce splendida, una tonalità dolce e delicata che ha accompagnato con un sorriso, in ascesa dall'inizio alla fine del motivo. Tutti sono rimasti stupiti dalla bellezza della sua voce. Ho notato un certo imbarazzo nell'applaudire, credo sia sembrato riduttivo. Più efficaci le parole, un susseguirsi di complimenti: "Bravo fratello".

La lezione era a quel punto finita. Gli afgani avrebbero voluto cantare ancora delle canzoni popolari delle loro montagne. La prossima volta. Non mancherò di ascoltarvi ancora.

domenica 1 aprile 2012

I marò, L'India, l'Italia, la politica.


Qualche giorno fa correvo frettolosa verso la stazione di Ciampino, ridente e inquinatissima città dove risiedo fisicamente (ma non mentalmente).
Passando davanti al Municipio ho trovato, accanto alla foto di Rossella Urru e a quelle di Sakineh, quella dei due Marò, presunti uccisori di due pescatori nel Kerala, in India

Questa foto ormai trita e ritrita da tutti i media italiani ha destato in me non poche riflessioni, visto il contesto multisfaccettato nel quale si colloca nella mia mente. Ci sono infatti l'Asia, l'Italia, la diplomazia internazionale, i moventi nazionali e locali all'esposizione di una tale immagine... di tutto e di più.
Iniziamo dal macro: l'India e la diplomazia; l'India e la democrazia.
Nella vicenda l'India sicuramente pecca nel fregarsene di alcune regole internazionali e anche forse di alcune regole di buon senso, sul corretto svolgimento delle indagini. Ma sapete, l'India non è proprio la grande democrazia asiatica che vogliono farci credere, basta googlare (capperi che brutti termini inizio ad usare) un po' e vi accorgerete di cosa combina laggiù, nel silenzio generale:


Passiamo al locale, all'Italia. Vedere nell'affissione di questa foto una vecchia dicotomia fascismo/pacifismo e antimilitarismo mi sembra applicare una categoria desueta, che non risponde propriamente alla realtà. C'è indubbiamente qualcosa di simile e vicino a questo, che forse riprende anche alcuni elementi antichi e presenti in forme di totalitarismo. Ma la questione è a mio parere più sottile, e va al di là dello scontro politico tra ideologie sinistroidi e ideologie destroidi. Anzi, credo proprio che questo modus operandi favorisca e sia usato ora dall'una e ora dall'altra parte politica, se proprio ancora vogliamo assumere la distinzione così fatta tra le stesse.

Credo che in questo contesto si voglia creare un sentimento nazional popolare, che unisca tutti contro il nemico. Il nemico non è però il governo del Kerala, ma è tutto quello che potrebbe turbare la tranquillità del Paese, e la sua sempre presente onestà. Ancora di più, il sentimentalismo credo serva da antidoto all'eventuale insuccesso diplomatico. Come a dire: "Noi abbiamo messo anche i manifesti fuori dai municipi, se non siamo riusciti a far niente non è mica colpa nostra!!"

E qui arriviamo al linguaggio politico (in senso lato) che comprende immagini, parole, utilizzati nel mondo della comunicazione politica e del giornalismo italici. Oramai sono infatti una cosa sola, e si passano l'un altro  stereotipi, atti propagandistici e altre facezie. 
Anche questa non è una novità, e viene da lontano. Ma l'uso fortissimo che se ne fa, e l'ingresso di questi concetti nell'opinione pubblica e nell'uso comune è prepotente e pericoloso. Non sono per niente convinta che la politica si faccia influenzare dalla strada e che anzi sia esattamente e ripeto, pericolosamente, il contrario. E così, ad esempio, il termine "marò" è ormai entrato nell'uso quotidiano, desemantizzato e corrispondente ormai solo a "quei due" marò.

mercoledì 1 febbraio 2012

Bangladesh


Se non si è capito, io ho una grande passione per il Bangladesh. Non vi sto qui a raccontare come è nata, posso dargli dei nomi, ma per ora mi limiterò ad illustrarvi man mano come sta crescendo. Un piccolo tassellino per la costruzione di questa passione ce l’ha messo anche Stefania Ragusa con il suo “Bangladesh. Inferno di delizie”. Un libricino rosa ed esteticamente delizioso di 185 pagine, scritto da questa giovane giornalista che è stata nel Paese asiatico varie volte. Non sono mai stata in Bangladesh anche se a volte ho dei flash e dei deja vu in merito; e molto probabilmente un bangladese doc avrebbe degli appunti da fare a questo lavoro. Ma leggendolo mi è venuta voglia di partire (oltre ad aver avuto dei flash ancora più spaventosi).
Il libro non ha la pretesa di raccontarci un Paese in tutto e per tutto, ma di presentarcene dei pezzetti, quelli che la Ragusa ha avuto la fortuna di vedere. Povertà, bambini abbandonati, slum, ma anche elementi sul carattere dei bangladesi, usi e costumi, storia. Leggendo ho avuto i miei soliti e più pesanti dejà vu. Poi mi sono auto lodata e auto compiaciuta per quello che leggendo già conoscevo o riconoscevo, stupendomi di come a migliaia di Km sia stato possibile assimilare tanto. Moltissimo altro invece l’ho appreso con la lettura, che ha destato ancora di più la mia curiosità facendomi venir voglia di tirar fuori il sari…

domenica 29 gennaio 2012

Ancora Torpignattara

L’anno è iniziato parlando di Torpignattara: il 4 gennaio il tragico omicidio di Via Giovannoli e, solo poche notti fa, l’aggressione a tre cittadini bangladesi.
Continuiamo a parlarne anche qui, ma con un consiglio di lettura. Ve ne parlo brevemente e senza buttare nel calderone le mie opinioni in merito. Tanto già le potete immaginare.

“Pigneto-Banglatown. Migrazioni e conflitti di cittadinanza in una periferia storica romana” è un validissimo contributo per chi vuole capire la zona e, assumendola a modello, comprendere le trasformazioni urbanistico-sociali di Roma. La periferia della Capitale è da sempre meta di migrazioni ed è cresciuta attraverso vari interventi dall’alto e continui innesti spontanei e non di popolazione.

Il libro a cura di Francesco Pompeo è una raccolta di saggi, realizzato dall’osservatorio sul razzismo e le diversità “G. Favara”; il tutto inserito anche nel Contratto di Quartiere Pigneto,  progetto realizzato con i fondi del Piano investimenti 2005-2007 del Comune di Roma (non riesco a spiegarmi bene su questa faccenda, mi impiccio sempre con queste cose).
Si tratta di un lavoro di antropologia che parte dal racconto di come era la zona nei decenni precedenti a quelli che stiamo vivendo, al descrivere vari aspetti della comunità straniera dominante, quella bangladese.
Quindi la scuola di lingua bengalese, l’organizzazione politica, l’élite dei migranti e i loro leaders, le condizioni abitative, il radicamento familiare e le difficili vite dei probashi  (termine con il quale in Bangladesh si indicano gli emigrati) senza documenti.
In maniera particolare sono evidenziate le reti etniche e familiari e il transnazionalismo rappresentato da rimesse e notizie mandate in Bangladesh. Narrando del forte radicamento familiare e delle attività commerciali viene sottolineato invece come, la presenza vista spesso come conflittuale e degradante da parte di italiani e istituzioni, sia invece diventata un valore aggiunto e valorizzatore. Un quartiere che ha sempre vissuto nel degrado, infatti vive una nuova vita proprio grazie alla popolazione immigrata.

Leggete amici, e meditate.

giovedì 12 gennaio 2012

Mio triste Torpinatara

Saprete tutti cosa è successo la settimana scorsa a TorPignattara. Un uomo cinese di 31 anni e la sua bambina di nove mesi sono stati uccisi in un tentativo di rapina.

Martedì scorso (10 gennaio) la comunità cinese, le organizzazioni italiane e non del quartiere e le istituzioni si sono riunite in una grande marcia contro la violenza e per la sicurezza, che da Piazza Vittorio ha raggiunto Torpignattara.
Vi racconto la manifestazione con mix di immagini e parole, senza grosse pretese, se non quella di cronaca e del poter dire "io c'ero".

Ho partecipato a tanti cortei in vita mia. Ho visto tafferugli, manifestazioni pacifiche, manifestazioni ordinate ed altre caotiche e disorganizzate. a volte mi sono divertita, a volte mi sono arrabbiata, altre volte sono tornata a casa delusa.


Ma stavolta, tutto è stato un po' diverso.
Stavolta mi sono commossa.

Il corteo, ordinatissimo, era composto per la maggior parte da cittadini cinesi di tutte le età. Stupendi i volti dei bambini, protagonisti inconsapevoli dell'evento.


Pochi inizialmente gli italiani e i rappresentanti delle altre comunità, ma pochi quelli che sono rimasti indifferenti...


... ma i "non cinesi" sono aumentati andato avanti il percorso ed erano tantissimi a Torpignattara, luogo della tragedia.
Tra gli italiani parecchi gli abitanti del quartiere. Molti, ancora una volta i bambini.



Numerosissimi i bangladesi, che non potevano mancare ad un evento così significativo per la loro Banglatown (è così che viene ormai chiamata Torpignattara, quartiere che vede una presenza schiacciante di immigrati provenienti dal Bangladesh).



che dire... Certi fatti possono essere evitati, certe situazioni non devono essere demonizzate ma solo osservate e capite. Un quartiere di immigrati non è un quartiere pericoloso di per sé, ma lo diventa con il lassismo. Un marocchino non è un criminale perchè marocchino, ma perchè è un criminale e basta.

Tutti questi bambini hanno diritto di crescere in una città sicura e che li ami.
E solo una città così sarà nostra, di tutti quelli che erano al corteo o che avrebbero voluto esserci (non scambiate le mie parole per buonismo e semplicismo, sento tutto quello che ho detto. Veramente).




giovedì 29 dicembre 2011

Il centro del mondo nella Capitale

Qualche giorno fa ho preso un autobus da Via Nazionale a Via Turati. Per chi non conoscesse Roma: si tratta di un percorso in una zona abbastanza entrale, limitrofa alla Stazione Termini.

Ebbene, un così breve percorso, così ordinario, è stato per una volta piacevolissimo e perfettamente inerente a tutto questo. Ero in piedi e come me altre persone. Due di queste discutevano tra loro su quale fosse la fermata più vicina a Piazza Vittorio. Io beh, con sempre troppa voglia di socializzare, mi sono inserita dicendo: Non vi preoccupate, è la fermata di Via Turati, dove scenderò anch'io.

Una frase semplice, che ha creato qualcosa di insolito. I miei due compagni di viaggio mi hanno sorriso, ci siamo guardati e... boum! abbiamo iniziato a parlare. Uno di loro era un uomo asiatico, credo del Bangladesh, e l'altra una fantastica donna africana sulla sessantina. Lei ha subito detto: "E certo che anche la signorina scende lì. è quello il centro del mondo nella Capitale..."

Altra frase magica. Di nuovo sorrisi, sguardi e nuovi scambi di parole, idee. L'urbanistica del quartiere, il mercato, persino l'orchestra di Piazza Vittorio e i loro concerti fuori dallo Stivale. Arriviamo in Via Turati, scendiamo ci salutiamo.

Ma no, non possiamo salutarci. Il signore mi torna vicino e mi fa: Ma lei è romana? Si sente proprio, però sa... è strano qui incontrare qualcuno col suo accento. è vero, annuisco. è strano ma è stupendo. Ma questo non faccio in tempo a dirglielo perchè il mio nuovo bondu accelera sorridendo e si allontana.

Mi volto, la signora è dietro di me. Nuovo sorriso, rallento. La aspetto. Le chiedo dove è diretta, dobbiamo andare nella stessa direzione. Allora perchè non scambiare ancora due parole?
Mi dice il suo nome, tipico della sua tribù, mi racconta che è una vita che in Italia lavora nel sociale con le donne e i bambini. Le dico come mi chiamo, ancora sorride nel sentire il mio nome crocevia di mondi e culture, le dico di cosa mi occupo. Nuovi sorrisi.

Arriva il momento di salutarci. Ci abbracciamo e ci diamo due baci sulla guancia. Un saluto troppo caloroso per due sconosciute, anche nella mediterranea Italia. Ma è così che sentivamo, così che nessuna delle due ha protestato.
Lei per la sua strada, io per la mia.
Pochi minuti per riflettere. Pochi minuti per spiegare.

Questo è il mondo che vorrei. Questo è il quartiere che amo. Questa è la Roma che sogno, senza strumentalizzazioni, esagerazioni e neanche semplificazioni (nemmeno da parte di chi la pensa come me).

E questo è il modo con il quale ho deciso di augurarvi buone feste.

giovedì 8 dicembre 2011

Diario di una maestra 2: Il Bangladesh è dietro l'angolo

...tra i bambini...
Maestra: "Ma tu ci sei mai stata in Bangladesh?"
Bambina, 6 anni: "Sì, un giorno."
Maestra: "Un solo giorno? E che cosa hai fatto?"
Bambina: "Abbiamo fatto un giro, poi abbiamo preso un gelato e poi siamo tornati a casa"

...e durante una lezione con studenti adulti
Studente: "Maestra, come si dice in italiano "invitation"?"
Maestra: "Invito?"
Studente: "Ecco, io invito te da me in Bangladesh"

sabato 14 maggio 2011

Razzismi a tutte le latitudini

Ed eccomi qua, a Paris. Sono ormai dieci giorni che sono arrivata e sono abbastanza soddisfatta del sole, dello studio e di tutto il resto.

nessuno mi guarda male quando indosso il mio vestito bengalese, perchè qui camminano per le strade e prendono la metro e vivono abiti dai più svariati angoli della terra. A guardarmi in modo stupito e incredulo sono stati solo i ragazzi bengalesi che vendono frutta davanti alla Biblioteca Marguerite Durand (eccezionale covo di studiose in studi di genere, ma questa è un'altra storia). Mi hanno guardata si, ma essendo molto meno molesti dei loro colleghi sbarcati in Italia, non hanno preferito parola. Ebbene si, sono meno molesti, al punto che non ho mai avuto occasione di dire "lagbe na" ("non ne ho bisogno", in bengali).

e così passeggio felice per rues et boulevards, immaginando questa città come un angolo dal quale poter escludere la mia malaintegrazione cronica. (e mi dico da sola: sogna ragazza, sogna)

Poi ieri ho acquistato il mio abbonamento mensile per i mezzi pubblici. il simpatico giovanotto addetto alle informazioni della stazione Rambuteau (quella del Centre Pompidou) è gentilissimo e mi aiuta in ogni passo della procedura. Prova anche a parlarmi in spagnolo -per gentilezza o per marpioneria- ma subito lo assicuro che è meglio parlarmi in francese.
superata questa piccola incomprensione, mi accingo a pagare, lo saluto e lo ringrazio e lui mi fa: "Signorina, stia attenta al portafoglio perchè qui è pieno di rom. ne ho appena visti alcuni passare."
Qualche secondo di silenzio...
Io: "Non si preoccupi, so badare al mio portafoglio".

Non ho parole.
Gli zingari rubano, i negri puzzano, gli italiani sono mafiosi, i musulmani sono terroristi, le donne dell'est sono prostitute.

à plus