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lunedì 2 giugno 2014

I miei nonni, tanti 2 giugno e la speranza.

Stamattina, al mio risveglio, ho pensato ai miei nonni.

Ho pensato a loro quattro che quel 2 giugno hanno fatto una scelta. Sono usciti di casa e sono andati a votare.

Tra loro quattro solo due sapevano leggere e scrivere e lo avevano imparato per puro caso. La mia nonna materna perché, rimasta orfana di padre dopo il terremoto di Avezzano del 1915, era stata affidata ad un ente di assistenza e lì, un collegio di suore, aveva frequentato le prime quattro classi elementari. Ci diceva sempre che era stata scelta dal benefattore per continuare la scuola e diventare maestra, ma poi il benefattore era morto e lei è tornata a casa, 12enne e pronta per imparare a tessere e a fare la moglie.

Il mio nonno materno, invece, aveva imparato da solo. Probabilmente sotto le armi, quando nel 1915 si era ritrovato ad avere proprio 18 anni. è ricordato da chi lo ha conosciuto come un uomo estremamente intelligente e ingegnoso. Il mio più grosso fantasioso rammarico è di non aver ereditato da lui null'altro che la lingua, almeno a quanto dicono.

Il mio nonno paterno ci era andato molto vicino e aveva frequentato qualche giorno di scuola. Ma il mio bisnonno, quando aveva visto che i giorni passavano e il piccolo non imparava a leggere e a scrivere aveva deciso di non mandarcelo più.

Del rapporto con la mia nonna materna e l'alfabetizzazione non so quasi nulla, ma quando penso ai miei studi, spesso penso proprio a lei. Li sto leggendo io tutti i libri che lei non ha potuto neanche toccare, impegnata a costruirci un futuro e a difenderci dalla ritirata tedesca in Ciociaria.

Ho pensato a loro, non per farne l'apologia. Ho pensato a loro e alla loro forza, alla loro speranza. A loro che nonostante tutto quel 2 giugno devono essere stati felici, almeno un po'.

E penso a me, seduta qui a pensare al futuro, con momenti di sconforto senza precedenti, quando tutto sembra crollarmi addosso e non so come agire.
E ripenso a loro, di nuovo a loro, che forse saprebbero spiegarmi come si fa a rialzarsi.

Buon 2 giugno di memoria e speranza a tutti.




mercoledì 2 aprile 2014

L'insostenibile pesantezza del freelance

Freelance è una parola bellissima, etimologicamente parlando. Pensate che pare sia stata coniata da Sir Walter Scott, parlando di cavalieri.

Ma la sostanza è altro ed essere freelance fa schifo, senza mezzi termini. Non fraintendete, io sono una sostenitrice della mobilità, sarebbe il mio sogno. A me piacerebbe molto zompettare da un lavoro ad un altro, da un ambiente ad un altro, da colleghi ad altri, tra attività varie tra loro ma tutte ugualmente stimolanti. La mia essenza è questa: vivere di diversità e pluralità, fare molte cose per non annoiarmi mai. Ma c'è modo e modo.

Se sei freelance qui e adesso, devi accettare tutto, 'che mica è detto che sei sempre freelance, per la maggior parte del tempo sei disoccupato. E così ti ritrovi in contesti e ambienti non sempre ameni, dove l'ultimo arrivato è accolto in modalità random, a seconda dei rumori e degli umori.

Di solito il freelance è quello più giovane, più titolato ma meno esperto (non nel lavoro, attenzione, ma meno esperto di quell'ambiente) che viene o sfruttato o ignorato. Ultimamente a me è capitata soprattutto la seconda situazione: non vengo convocata alle riunioni, non vengo chiamata per iniziare il corso del quale sono l'unica insegnante (sìsì, avete capito bene, gli studenti erano tutti in classe, pronti ad iniziare, ma nessuno aveva chiamato me!), non mi si dice nulla di come dovrei impostare il mio lavoro, mi si prende anche a male parole -poi- perché "noi credevamo fosse scontato". E certo, io posso immaginare quali siano i vostri usi e costumi (che cambiano di anno in anno) in modo telepatico o perché qualche divinità mi appare in sogno con l'obiettivo di spiegarmi tutto. Scusate tanto, ma io spero che le divinità mi interpellino per altro.

Essere freelance fa schifo, perché mentre hai ferie lunghissime non volute, in periodi orrendi e con le tasche vuote e bucate, ti ritrovi a non poter avere neanche un giorno per una gita fuori porta, neanche un giorno per andare a fare una visita medica, quando in teoria avresti quei quattro soldi per fare entrambe. Per non parlare poi delle altre tutele, del welfare, dei sostegni alla disoccupazione. Il freelance non ha nulla. E voi non sapete quanto mi piacerebbe avere l'assegno di disoccupazione, ma io ce l'ho scritto in fronte "lavoro occasionale". Quindi niente, basta, sono un mezzo evasore senza tutele.

Essere freelance fa schifo, perché devi sopravvivere al fianco di persone in odor di pensione, grasse, sedute e immobili, che si permettono anche di darti consigli su come portare avanti la tua vita e fare anche commenti. "Ma qualche supplenza nelle scuole pubbliche?", "Ma prova ad aprirti un'assicurazione sulla vita", "Non hai la macchina?!". No, non potete. Non potete perché non sapete niente di me, non potete perché è anche colpa vostra se io sto così e i vostri lipidi cerebrali continuano ancora a farmi solo del male.

Essere freelance a Roma è insostenibile, con o senza automobile. Unica nota positiva, sto leggendo romanzi su romanzi, sfruttando scioperi dei mezzi pubblici, ritardi dei treni e per cercare di non ascoltare il qualunquismo imperante delle chiacchiere altrui.

Essere freelance farebbe veramente schifo se non avessi un infinito amore per quello che faccio, se non avessi gli studenti (alcuni dei quali si preoccupano veramente e attivamente per me ed io non so come ringraziarli) e se non avessi ancora attacchi di entusiasmo e di ottimismo, come oggi - anche se non sembra.


mercoledì 27 novembre 2013

Berlusconi è decaduto!

Non posso esimermi dallo scrivere. Sento l'irrefrenabile voglia di far parte di tutta l'immondizia che si scrive e si dice in queste ore frenetiche, dopo vent'anni. Cavolo, dopo vent'anni. Sono cresciuta in mezzo a questa immondizia, mi sento parte di quell'immondizia, ma una parte che merita di finire nella differenziata per essere salvata.

A dire la verità, forse ci siamo già salvati da soli.
Forse siamo così forti, geneticamente immuni a tutto questo, resistenti per natura.
E abbiamo lottato, studiato, lavorato e non siamo diventati né falchetti né colombe, non ci siamo fatti imbambolare da nessun populismo, non abbiamo emulato i nostri predecessori che nei decenni precedenti hanno creduto all'abbondanza, senza scavare neanche un attimo.

Non siamo neanche finiti come molti dei nostri contemporanei, dei quali forse non so più che cosa dire. Che dire di chi orgogliosamente vota Berlusconi, non ha voluto diplomarsi, lavora per raccomandazione e fa la morale a noi, che ci arrampichiamo con le nostre sole forze, che ci sforziamo di non risultare né eccentrici né banali, ma solo onesti e normali?

Leggo molto, leggo di tutto. In questi giorni ho letto anche opinioni di una certa Selvaggia Lucarelli (ma chi è?), ho letto dichiarazioni dei 5stelle, ho interpretato per quanto mi è possibile interviste televisive che mi davano il voltastomaco.

Ebbene, Berlusconi è decaduto. Ma nessuno ha il coraggio di dire che gli italiani vanno a vedere Checco Zalone non perché vogliono passare semplicemente un pomeriggio di leggerezza. Nessuno riesce a farsi sentire quando cerca di spiegare che la sperimentazione animale non ha nulla a che vedere con le foto degli animali maltrattati. Nessuno, dico nessuno, insulta Carlo Conti e i suoi autori per il sessismo di alcune gag che propone nel suo programma pre-tg su Rai 1.

E sapete perché, penso io? Perché in questi Venti anni, con o senza Berlusconi (ma con Berlusconi di più) ci siamo appiattiti, ci siamo cullati sui nostri difetti più fastidiosi e li abbiamo coltivati. E così oggi vediamo Checco Zalone, perché forse non troveremmo nulla di divertente in un Woody Allen italiano, spariamo a zero contro i ricercatori che sono costretti ad emigrare (ma avremo tanti beagle felici, questo è certo - come se i ricercatori cattivi facessero ricerca sul vostro animale domestico, certo), e facciamo tutte le campagne del mondo contro la violenza sulle donne, ma ci farà sempre ridere la velina stupida che canta i Beatles come una cornacchia, mentre Carlo Conti ride. 

mercoledì 25 settembre 2013

Disoccup-Arty: le arti del riposo forzato.

Ci provo ad essere ottimista. Ma non è proprio nella natura delle cose.
Nella mia di natura sì, l'ottimismo, il sarcasmo e l'autoironia trovano spazio.
Ma nel buco nero davanti a me, che pure vedo infinito e di spazio ce ne sarebbe,  niente trova collocazione. Né le speranze, né le attese.

Mi sveglio, accendo il computer invio la mia dozzina di curricula quotidiani.
Do un'occhiata alle vecchie candidature.
Sistemo il  cv, il profilo linkedin e perfino quello di facebook.
Mi metto a lavorare su due saggi che sto preparando. Che si sa, bisogna accumulare pubblicazioni.
Aspetto risposte a progetti, a richieste di informazioni, a candidature inviate.
Guardo continuamente il cellulare.
Controllo le email. Ma mi vogliono solo vendere qualcosa o truffarmi.
Leggo i commenti degli altri sui social network. Arrivo ad odiarli e invidiarli.
Mi informo, penso all'accanimento giudiziario.

Poi mi viene voglia di uscire . Avrei voglia di fare foto, ma non scatto da quando ero a New York.
Avrei voglia di scrivere. Ma, come adesso, riesco ad essere solo troppo lamentosa.
Penso a chi sta meglio. Non mi passa neanche per la testa che qualcuno potrebbe stare peggio.
Potrei perdere di vista la realtà, mentre ho già perso la gioia per certe piccole cose.
Il mare, le montagne, gli alberi, i parchi di Roma. Il sushi, il vento, un buon libro.