Si fa tutto un gran parlare di integrazione, di Isis, di seconde generazioni, di immigrazione sì, immigrazione no, di identità culturali e religiose.
Se ne fa, ma non si trovano soluzioni e anche i più illuminati forse non si sono mai fatti un giro dove l'immigrazione non c'è.
Da tre anni lavoro nelle scuole professionali in alcune delle periferie più disagiate di Roma, che sono anche quelle dove la presenza immigrata è più forte. Tra i miei studenti ci sono soprattutto figli di quel sottoproletariato urbano sempre dimenticato, ai quali si sono aggiunti i figli di immigrati. Figli di una spinta a migliorare, ma molto spesso figli del disagio.
All'interno di questi gruppi le situazioni sono ovviamente diverse e molteplici sono le condizioni di partenza e di arrivo. Ci sono i figli di onesti lavoratori, che diventeranno onesti lavoratori e che spesso hanno da subito un quadro molto chiaro di quello che sarà il loro futuro. Ci sono figli di onesti lavoratori i quali non riescono a controllare questa prole perduta. Ci sono quelli finiti lì per caso, per occupare il tempo, che spesso hanno alle spalle famiglie problematiche, per i motivi più vari.
Loro, italiani per nascita o per sangue, stranieri con permesso di soggiorno o in odor di passaporto italiano, hanno una cosa in comune: non sono integrati nella società come noi la pensiamo e non accettano l'integrazione degli altri.
Loro, italiani per nascita o per sangue, stranieri con permesso di soggiorno o in odor di passaporto italiano, hanno una cosa in comune: non sono integrati nella società come noi la pensiamo e non accettano l'integrazione degli altri.
Ci ho messo del tempo per capirlo e ancora adesso mi struggo sul come poter fare qualcosa per loro.
è in queste periferie che vedo il frutto di tutto: del qualunquismo e del populismo di Salvini e della Meloni, del menefreghismo lessicale di quasi tutti i giornalisti nostrani, di quella strana idea che il razzismo e l'omofobia siano un'opinione.
Per i ragazzi è normale dare della "troia" a una ragazza giudicandone comportamenti, modi di vestire e comportarsi. Per i ragazzi è normale usare termini razzisti e irrispettosi delle culture altrui, ma anche della propria.
Per questi ragazzi è normale generalizzare tramite un "noi" e un "loro" che spesso hanno dei confini imperscrutabili e insensati - per noialtri.
Sicuramente i pratici mi tacceranno di buonismo, ma qui mi sembra che anche con loro non ci sia nulla da fare. Non si tratta di opinioni, la questione è a mio parere molto più grave.
In questi luoghi non si può neanche provare a dire che forse il mondo è proprio diverso da come viene dipinto, perché sono le famiglie, la televisione e spesso gli stessi educatori a legittimarlo. E il fatto di avere un compagno straniero, di affermare che "Aho, al Gay Village però te diverti!" non può nulla neanche come appiglio.
Il ragazzo musulmano sta seduto in un angolo, si vergogna di farsi chiamare per nome (un nome bellissimo, che a me ricorda gli imperatori ottomani) e al massimo si incattivisce e inventa nuovi insulti a sfondo razziale o sessuale. Del ragazzo e della ragazza omosessuale, poi, non posso neanche parlare. La ragazza al quale viene affibbiato un nome partendo da un comportamento sessuale presunto o meno (ma poi, che cambia?), invece, ci si abitua e non ci fa più caso.
Con amarezza e pessimismo mi viene spesso da pensare che è in una periferia come questa che è cresciuto Salah, il terrorista del 13 novembre a Parigi, ancora in fuga. Poi però penso che non devo cedere, che non posso cedere anche io a tutto questo. So che non avrò mai la soluzione, perché non è mio dovere e non posso farcela da sola (ah sì, un giorno vi dovrò parlare anche dei miei fantastici colleghi).
Penso a tutto questo e mi fermo, prendo le mie carte e preparo la lezione; devo almeno provarci.
Quei ragazzi, domani, mi aspettano in classe.